Labirinti
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Labirinti

Labirinti di Franck Thilliez, Fazi editore

LabirintiTerza e, verrebbe da dire per fortuna, ultima puntata della saga di Caleb Traskman. Questa volta troviamo una giovane ricoverata in ospedale. La sua identità non è nota perché stranamente soffre di amnesia. Una poliziotta sta indagando e il medico le narra gli antefatti che la paziente stessa gli ha raccontato in un momento di lucidità. C’erano una giornalista, una scrittrice, una reclusa e una psichiatra… sembra l’inizio di una barzelletta. E in effetti il testo risulta ancora più eccessivo e parodistico del secondo in un crescendo di macabro, amnesie, doppie e triple identità l’una dentro l’altra.

Scopriremo alla fine la vera sorte di Julie e di Traskman e di come termina la loro eterna partita a scacchi…

Labirintiche perplessità

Se il secondo libro mia ha lasciato perplessa, il terzo mi ha definitivamente convinto della astrusa banalità del testo.

Non c’è nulla di nuovo, se non il tentativo di dare delle risposte al lettore curioso. Tutto però scivola in superficie, nulla scava nel profondo. Caleb e i suoi pazzi amici, Julie e le sue mille identità sono come dei manichini senza personalità che agiscono senza un perché. Non c’è scandagliare nell’animo umano, non c’è ricerca dell’origine del male, per quanto banale esso possa essere. Troviamo solo un elenco di efferatezze inanellate per suscitare meraviglia e orrore.

Il labirinto è il tema portante del libro, il labirinto disegnato dalla pittrice Arianna, quello costruito fisicamente nella sua villa da Caleb e infine quello più profondo e oscuro nella mente dei protagonisti. Un labirinto in cui le identità e i sentimenti si perdono e si confondono. Fuggire dal labirinto equivale a morire, se non realmente almeno nella psiche, e quindi risorgere a nuova vita con una nuova identità.

Le amnesie che si rincorrono sono l’altro tema portante che ritroviamo nei tre i libri. I protagonisti sono tutti vittime di una terribile amnesia che li porta in una realtà altra che non sempre è allineata con il passato della vittima.

“C’era una volta un re seduto sul sofà…”

Anche in quest’ultimo (ma sarà davvero l’ultimo?) episodio si moltiplicano le citazioni a libri e film gialli da Christie a Hitchcock passando per mille altri autori. E nel rincorrersi dei riferimenti e dei cliché troviamo ancora la definizione di Kitsch di Eco.

Tutto in questo libro è esagerato, dalle personalità multiple e multiformi all’orrore che si amplifica di pagina in pagina attraverso dettagli inutilmente raccapriccianti. Esagerata è anche la definizione di un’arte fine a sé stessa e alla ricerca del mero stupore attraverso il macabro perché non riesce più a inventare e a inventarsi, non sa più esprimere l’umano né prefigurare il divino e quindi si rifugia in un grottesco diabolico.

Alla fine cosa resta di questa saga? Una gigante e inconsistente matrioska che fa il verso al celebre “C’era una volta un re seduto sul sofà…”