La parola a Stassi, Masini, Cocco e Magrelli
Il “Campiello” è un premio letterario che viene assegnato annualmente a Venezia alle migliori opere di narrativa italiana. Istituito nel 1962 per volontà degli Industriali del Veneto, con lo scopo di incentivare e diffondere il piacere per la lettura, in breve tempo è divenuto uno tra i premi letterari più prestigiosi ed ambiti della nostra penisola. La cinquantunesima edizione, che si è conclusa la sera di Sabato 7 Settembre presso le Sale Apollinee della Fenice, ha visto la vittoria postuma di Ugo Riccarelli, scomparso lo scorso 21 Luglio, con l’opera L’amore graffia il mondo edita da Mondadori.
Il romanzo di Riccarelli ha ottenuto 102 preferenze, sulle 289 inviate dalla Giuria dei Trecento Lettori. Al secondo posto si è classificato Fabio Stassi con il romanzo L’ultimo ballo di Charlot, edito da Sellerio, con 83 voti. Al terzo posto con 47 voti, Giovanni Cocco con La caduta (Nutrimenti). Quarta classificata con 36 voti, Beatrice Masini con Tentativi di botanica degli affetti (Bompiani). Infine, Valerio Magrelli con Geologia di un padre (Einaudi), al quinto posto con 21 voti.
Alcuni giorni prima della scelta del vincitore, avevamo inviato alla Fondazione Il Campiello una serie di domande da girare ai finalisti per realizzare questa piccola intervista. Cristina ed io avevamo pensato a due domande comuni a tutti (una su Venezia e una sul finalista da poco scomparso) seguite da una domanda specifica per ogni singolo autore. Purtroppo le risposte ci sono arrivate soltanto ieri sera, quando ormai l’eco dell’evento si è già smorzato. Noi però cercheremo di rilanciarlo con questi interessanti spunti di riflessione.
DUE DOMANDE PER TUTTI
D1. Venezia, città unica al mondo per la sua atmosfera, per la sua storia, per l’arte che la attraversa. Come immaginate un vostro racconto ambientato in laguna? Romantico, catastrofico, storico, fantascientifico…
R. (FABIO STASSI) Per me Venezia è una geografia immaginaria. E’ il luogo che si avvicina di più alla letteratura fantastica. È come se fosse stata partorita dall’estro visionario di uno scrittore. Non appartiene alla realtà. È una delle isole di Gulliver, la sua mappa è inventata. È il luogo di tutte le occasioni e di tutte le possibilità. Per questo, la storia che racconta è una molteplicità di storie, quanti sono i suoi canali e i suoi campielli. Ci immagino un intreccio di trame diverse, e ogni tanto un ponte, per transitare da una all’altra. E un personaggio che ne pedina un altro che ne pedina un altro, in un viaggio che non ha fine né centro.
R. (BEATRICE MASINI) Venezia è per molti versi una città impossibile, che sfida la logica, l’acqua, il tempo. Quindi credo che sia lo sfondo perfetto per una storia romantica, un amore impossibile, nel senso di incompiuto, forse anche ineffabile. Un modello altissimo di storia d’amore che non si può afferrare è L’età dell’innocenza di Edith Wharton: ecco, m’immagino un racconto così. Però ambientato oggi, anzi, senza nemmeno un quando, perché in certi angoli di Venezia si può davvero sospendere la nozione di tempo senza difficoltà.
R. (GIOVANNI COCCO) Mi piacerebbe scrivere una travolgente storia d’amore ambientata tra il Canal Grande e le isole, con la zona di San Rocco sullo sfondo. Con un protagonista esagerato, come il Barney di Richler, e un personaggio femminile come quelli di Jane Austen. Nel frattempo mi consolo con alcuni splendidi romanzi che hanno raccontato Venezia al meglio: Altai, di Wu Ming e Stabat Mater, di Tiziano Scarpa.
R. (VALERIO MAGRELLI) Non posso immaginarlo finché non deciderò di scriverlo. Certo, però, Venezia fa tutt’uno, per me, con Il carteggio Aspern di Henry James.
D2. Amore e morte si intrecciano indissolubilmente nell’ultimo libro di Ugo Riccarelli. Il tempo che scorre inesorabile, la vita come un breve viaggio sono temi che affascinano i lettori. Qual è la vostra lettura del romanzo “l’amore graffia il mondo”?
R. (FABIO STASSI) Nell’unico incontro del Campiello al quale Ugo Riccarelli ha partecipato, a Roma, ci parlò di sua nonna, della voce di sua nonna, degli incipit straordinari dei suoi racconti a voce. Gli dissi che anche io avevo avuto una educazione simile alla letteratura. Grandi narratori orali, un patrimonio di storie familiari, un culto delle avventure degli umili, delle loro peripezie. Convenimmo che le storie si trasmettono sempre attraverso mani femminili, o almeno questo fu il nostro caso. Ecco, il suo romanzo l’ho letto come una fiammella alimentata dal fiato di una donna, una stazione ferroviaria dove si incontrano i binari della storia del Novecento e di quella privata e autobiografica del suo autore.
R. (BEATRICE MASINI) È un passo d’addio, una lunga lettera di congedo e ringraziamento dedicata alla madre: la madre dello scrittore ma anche la madre come pura idea, capace di piccole cose quotidiane che diventano nel tempo cose grandi.
R. (GIOVANNI COCCO) Signorina come una donna simbolo, che racchiude tutte le donne italiane e un momento storico ben preciso.
R. (VALERIO MAGRELLI) Mi pare che il suo fuoco, in senso ottico, sia un fuoco d’amore, in senso psicologico. Tutto verte cioè sulla figura della donna, sulla sua forza, sulla sua pazienza. Mi viene in mente la definizione della palma e del suo lento fiorire che ne diede un poeta quale Paul Valéry: “Pazienza, pazienza, pazienza nell’azzurro”.
A CIASCUNO LA SUA
D. (a FABIO STASSI) Charlie Chaplin è un’icona del cinema e della comicità moderna. Cosa la avvicina di più al grande attore?
R. Charlie Chaplin attraversa la vita con una maldestra e spaventosa inconciliabilità con il mondo ma anche con una grande generosità. È l’uomo che balla sulla sventura della sua miseria, ma che trattiene sempre la sua dignità di uomo e un sentimento di solidarietà universale. È affratellato con i deboli, gli esclusi e gli ultimi. È uno che ha scelto da che parte stare, dal lato mancino delle cose, ma che non prova risentimento né odio. Trova la sua felicità insieme agli altri e si prende gioco dei prepotenti. Mi avvicina a lui questo senso di appartenere allo stesso genere umano perduto, questo non dimenticare mai da dove si proviene.
D. (a BEATRICE MASINI) La società descritta nel libro è quella del primo ’800, un momento denso di presagi e di movimenti intellettuali che si sarebbero resi palesi poco più tardi. Si può in qualche modo fare un parallelo tra quel periodo e il nostro, così incerto e rivolto verso un futuro dai contorni fumosi?
R. Temo che per certi versi l’inizio dell’Ottocento fosse un momento molto più fervido e ribollente di possibilità del nostro. È per questo che l’ho voluto come sfondo per la vicenda di Bianca, donna nuova: il suo personale disegno è solo parte di un disegno di cambiamento più grande, che dalle singole storie riverbera sulla Storia e viceversa. Oggi non vedo grandi architetture all’orizzonte e proprio per questo credo che si debba ripartire dalla coltivazione di sé, dalla cura di ciò e di chi si ama, dalla pazienza del giardiniere che fa le cose al tempo giusto, con lentezza, e costruisce il suo progetto un po’ alla volta.
D. (a GIOVANNI COCCO) L’Occidente, ma non solo, si trova davanti ad una svolta. Crisi economica, spirituale, politica, una crisi senza confini attanaglia la nostra civiltà. La crisi è un segno di cambiamento imminente e necessario. Come immagina la nuova civiltà in divenire?
R. Un mondo globalizzato porta con sé nuove sfide e nuove opportunità. Sta poi al singolo individuo capire che la responsabilità delle scelte è sempre qualcosa di unico e irripetibile. Per quello che mi riguarda, chi scrive è soprattutto un osservatore, c’è grande attesa e grande curiosità di capire in quale direzione svolterà l’Occidente dopo il Secolo breve. I momenti di transizione come quelli che stiamo vivendo rappresentano innanzitutto una grande occasione. E l’Italia può e deve cambiare, a cominciare dal modo di porsi verso il resto del mondo. Quello che sanno fare gli italiani, la vitalità, l’intraprendenza e l’eccellenza, sono valori da esportare.
D. (a VALERIO MAGRELLI) Mettere nero su bianco i propri affetti e ricordi ne prolunga la vita. Ma il dolore e rimpianti si sciolgono e si stemperano nella scrittura oppure in qualche modo si allunga anche ad essi la vita?
R. Credo che la scrittura (poesia, narrativa, teatro) non andrebbe definita come “l’altrove” del linguaggio, ma piuttosto come il suo “gioco”. Non il suo “oltre”, quindi, bensì il suo “dentro”, intendendo per gioco (secondo l’insegnamento di Ludwig Wittgenstein) “lo spazio compreso tra le superfici affacciate di due elementi meccanici uniti da un accoppiamento mobile”, e in genere “il movimento consentito da tale spazio”, o ancora “la libertà di movimento”. (Pensiamo per esempio alla manopola di un acceleratore che si muova un pochino prima di arrivare a dare gas).
“La libertà di movimento nel linguaggio”: mi sembra che questa espressione dia un’idea già abbastanza soddisfacente di ciò che avviene sul campo della pagina.
Ora non ci resta che esprimere la nostra riconoscenza alla Fondazione Il Campiello per la foto gentilmente concessa e per averci messo in contatto con questi scrittori che ringraziamo di tutto cuore per le risposte fornite.
Intervista del 24/09/2013
Pubblicato per gentile concessione dal sito CSI-Multimedia di Cristina, Alfredo e Camilla