Il danno scolastico di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, La Nave di Teseo editore
La tesi enunciata nel libro dai due autori riguarda l’evoluzione della scuola italiana negli ultimi sessant’anni. La visione democratica-progressista ha portato a una lenta ma inesorabile dissoluzione del valore formativo della scuola rendendola paradossalmente un’istituzione che blocca il cosiddetto ascensore sociale. Come è avvenuto e perché?
Gli autori cercano una risposta alla prima domanda narrando come, a partire dalla riforma delle medie del ’62, si sia proceduto a uno smantellamento progressivo dell’istituzione scolastica e dei suoi contenuti, abbassando di decennio in decennio l’asticella della difficoltà. Programmi sempre più ridotti, libri sempre più semplificati, test a crocette al posto delle domande aperte e dei temi ecco alcuni dei fattori che hanno contribuito a creare giovani che in molti casi non sono in grado di capire cosa stanno leggendo e non sanno organizzare un pensiero né scritto né orale.
Dalla trasmissione del sapere all’intrattenimento
Questo ha fatto comodo ai genitori e ai ragazzi che non devono più preoccuparsi delle bocciature perché la scuola inclusiva promuove tutti. La scuola è passata dall’essere un luogo dove si faceva o si tentava di fare cultura e si trasmetteva un sapere a luogo di socializzazione e di intrattenimento senza responsabilità. Ma da tutto questo chi ha tratto vantaggio? Non i ceti più bassi che non avendo altre modalità di formazione finiscono con l’avere un’istruzione inadeguata che li penalizza nel trovare il lavoro o nel portare a termine gli studi universitari. Il ceto medio alto invece ha risentito meno della situazione perché in grado di supplire tramite la famiglia o il ricorso a tutor privati.
Una questione complessa
Il problema trattato è molto complesso e non condivido tutte le osservazioni. Se da un lato è sotto gli occhi di tutti che il livello dell’istruzione è miseramente scaduto negli ultimi decenni, dall’altro non è neppure vero che in passato fosse tutto rose e fiori. Le diseguaglianze, checché ne dicano gli autori, c’erano eccome. La strada per alcuni era già spianata e sono sempre stati chiusi occhi su manchevolezze in virtù dell’importanza della famiglia dell’alunno nella scala sociale.
Da questo punto di vista non vedo particolari differenze tra ieri e oggi, in particolar modo nei licei e nella fattispecie nel liceo classico dagli autori ritenuto il top della formazione. Il vizio di favorire raccomandati e donatori a scapito dei meritevoli è ancora vivo e vegeto, oggi come allora. D’altra parte l’abbassamento del livello è vero che comporta una ulteriore penalizzazione per gli studenti più fragili. Chi non ha alle spalle una famiglia in grado di supplire alle carenze della scuola ha scarse possibilità di progredire nel percorso scolastico. Subisce quindi un doppio svantaggio sia alla partenza che all’arrivo e le possibilità di competere sono così drasticamente ridotte.
Purtroppo è quindi vero che la scuola dell’inclusività è ingannevole. Se il diploma per tutti sembra essere una conquista, il diploma annacquato è in realtà una perdita, una sconfitta. Non è trasformando un diploma in quello che ormai è un attestato di frequenza che si offre una chance a tutti di emergere, di migliorare la propria vita. In questo modo semmai si affossano le reali possibilità di arrivare a livelli di studio elevati e si trasforma persino la laurea in un certificato spesso privo di valore. L’analfabetismo funzionale che affligge molti studenti, ancorché laureati, è un dramma che ha serie ripercussioni in tutta la società.
Senza vie d’uscita
Come uscire da questo impasse? Gli autori non indicano nessuna via di uscita e forse la via ormai non c’è più. Dovrebbero essere gli studenti a pretendere una formazione seria e a rivendicare il loro diritto allo studio reale e non fittizio, rinunciando alla comodità e alla facilità di una carriera scolastica di pura facciata.
Ma di fondo questa situazione fa comodo a tutti, agli studenti che non fanno fatica, ai genitori fieri dei risultati dei figli, ai docenti che fingono di lavorare.
Dimostrazione traballante
Un altro punto che mi ha lasciata invece perplessa è quello che riguarda la “dimostrazione” analitica delle tesi enunciate nel libro. La perplessità è innanzitutto metodologica e scaturisce dalla lettura dell’appendice che riporta alcuni dati e alcune delle strategie statistiche utilizzate.
Primo il campione è davvero molto ridotto; secondo viene scartato il lavoro della madre perché a detta degli autori riguarderebbe solo i ceti alti (secondo me è il contrario, il lavoro femminile, anche se magari di scarso profilo, è più diffuso nei ceti bassi che debbono sbarcare il lunario); terzo si utilizzano le invalsi (i test a crocette definiti più volte dagli autori stessi come inattendibili) come base per la valutazione del profitto scolastico.
Questi ed altri dettagli rendono, dal mio punto di vista, la raccolta e l’elaborazione dei dati ingannevole e volta a comprovare, senza basi davvero scientifiche, un dato che pure è reale ed è sotto gli occhi di tutti, ovvero l’inesorabile abbassamento qualitativo dell’istruzione.
In definitiva un libro su cui meditare ma con gravi lacune metodologiche.