Le veglie di Neri
Le veglie di Neri

Le veglie di Neri

Le veglie di Neri di Renato Fucini, edizioni Lindau

Le veglie di NeriEccoci nella campagna toscana di fine Ottocento, in un’Italia appena riunita e ancora lontana dagli sconvolgimenti del Novecento.

La raccolta di brevi racconti è scritta da Renato Fucini con lo pseudonimo-anagramma di Neri Tanfucio. E già in questo primo gioco di parole in cui si nasconde l’autore balena il guizzo ironico che pervade tutta l’opera (si legga a questo proposito La fatta).

I racconti erano apparsi per lo più in diverse raccolte dal 1877 al 1881 e poi pubblicati tutti assieme nel 1882.

La quotidianità che emerge dalla lettura è quella contadina, semplice come il linguaggio dei personaggi che pure ai contemporanei potrebbe risultare non sempre immediato per i termini dialettali e per i vocaboli ormai desueti.

Veglie

Veglie, come Le veglie alla fattoria di Dikanka, scritte appena cinquant’anni prima da Gogol’ pronte a condurci nelle serate contadine animate dal folklore ucraino.

Come in Gogol’ anche Fucini tratta di aneddoti, leggende, tradizioni di una società rurale dove lo svago serale consisteva nel radunarsi attorno al focolare con un bicchiere di vino ad ascoltare o narrare storie di paura, pettegolezzi, fatti tramandati di generazione in generazione.

Quello che si nota è l’importanza dei sentimenti, della spontaneità, che in un mondo povero e privo di fronzoli costituisce la vera ricchezza, prezioso quanto il pane.

Incontriamo cacciatori, medici condotti, contadini che migrano a ogni stagione in cerca di lavoro, pastori, canonici, militari, giovani giudiziosi e altri scapestrati.

E i personaggi, tra ironia e tristezza si svelano e si rincorrono nelle quattro stagioni che scandiscono il ritmo del vivere umano.

Termino così, lasciando a Fucini descrivere la sua terra:

La primavera

“Folta delle sue nuove foglie, una vecchia querce gode la vita slanciando al sole di maggio le braccia robuste, e il vento canta alla primavera tra le sue fronde sonore. Canta alla primavera che ride intorno odorata, e nuota voluttuosa sull’onda delle verdi mèssi e tra i pampani e tra i fiori ondeggianti a un limpido sole, cullando ne’ loro aperti calici l’amore di mille insetti felici; e il polline giallo, commosso da tante ebbrezze, vola col vento a preparare altri profumi, altri fiori alla eterna giovinezza dei campi.”

L’estate

“Il caldo era soffocante e non dava respiro nonostante una leggera brezza di marino che sulla sera si era alzata languida languida e che, insieme con qualche raro fischio di uccelli palustri, rompeva l’alto silenzio di quella deserta pianura, correndo fra i biódi e le cannéggiole che, tremolando e lievemente fra loro percotendosi, mandavano un rumore come d’una moltitudine che lontana lontana applaudisse gridando e battendo le mani.”

L’autunno

“Il primo sole del novembre si affaccia malinconico alle ultime cime della montagna, già biancheggianti per la neve caduta di fresco e, mandando i suoi languidi raggi attraverso ai rami brulli dei castagneti, tinge di rosa la croce di ferro del campanile e l’asta della bandiera fitta sulla vecchia torre del castello. Qualche nuvola bianca sta fissa sui monti più lontani, uno strato bigio di nebbia allaga la pianura, e il villaggio dorme ancora sotto un freddo e splendido sereno d’autunno.”

L’inverno

“A guardare la montagna, era uno spavento; e anche di quaggiù si sentiva la romba della bufera che mugolava fra i castagni, mandando fino a noi qualche foglia secca insieme col sinibbio che strepitava sui vetri delle finestre come la grandine.”