Premio Campiello 2014 Opera Prima
Stefano Valenti ha tradotto numerosi libri sia di narrativa sia di saggistica per diverse case editrici (fra cui Questo non è un Manifesto di Michael Hardt e Antonio Negri, Feltrinelli, 2012 e Invecchiando gli uomini piangono di Jean-Luc Seigle, Feltrinelli, 2013). Per i “Classici” ha tradotto Germinale (2013) di Émile Zola e Il giro del mondo in ottanta giorni (2014) di Jules Verne.
Ha pubblicato con Feltrinelli La fabbrica del panico (2013), il suo primo romanzo, vincitore del Premio Campiello Opera Prima 2014.
Intervista
Com’è nata l’idea del libro, cosa ti ha spinto ad affrontare il discorso delicato della fabbrica come luogo di preparazione innaturale alla morte?
Ho scritto La fabbrica del panico perché sentivo l’esigenza di un racconto che il mercato editoriale non offriva più e per ricostruire la mia storia, la storia della classe operaia, in questi anni negata, censurata. Nel farlo ho cercato di attenermi a uno statuto di necessità restituendo la distanza emozionale delle cose vissute. Mio padre è stato operaio in Breda. Quando sono nato per lui la fabbrica era un ricordo, un ricordo indelebile, presente nei suoi quadri, nella pittura praticata con la stessa energia, gli stessi orari, le stesse scarse risorse della fabbrica. Un ricordo che tornava a vivere in occasioni di cene, camminate, durante le quali raccontava con tristezza la gioventù che se n’era andata in fabbrica. Ne La fabbrica del panico volevo raccontare la sua storia, la storia di un uomo fuggito dalla fabbrica per diventare quello che aveva sempre voluto essere, un pittore. Volevo rendere questa storia collettiva, affiancarla a storie di altri uomini segnati come lui dalla fabbrica. Quando ho conosciuto gli operai che hanno fondato il Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio di Sesto San Giovanni ho capito che l’alter ego di mio padre doveva essere Giambattista Tagarelli, operaio al reparto aste della Breda fucine dal 1973 al 1988, ucciso dall’amianto. Il protagonista del romanzo nasce dunque dalla fusione di queste due rappresentative figure della classe operaia.
L’uso di una paratassi estrema, le frasi sincopate sono una scelta stilistica dettata dalla natura particolare del libro o sono una scelta più generale che caratterizza la tua scrittura?
La narrazione inizia con la descrizione di un attacco di panico: il respiro affannoso, la vergogna, la vertigine, i tremori, l’angoscia di non dominare un corpo fuori sincrono. Una condizione filtrata da una coscienza precaria, dalla solitudine innaturale della città evanescente ed estranea e da un malessere cronicizzato, interpretazione contemporanea dei rischi del lavoro e del non-lavoro. È necessaria una sintassi concisa per raccontare morte e dolore. La forma paratattica, che nel mio testo nasce da discendenze narrative cercate e amate, è una scelta ma è anche adatta a descrivere il panico del titolo, un dolore a più facce, una nevrosi ereditata dal padre, la resa a uno straziante disordine che opprime il figlio, il narratore, un lavoratore a termine che vive di collaborazioni occasionali e traduce dal francese nel chiuso di un microappartamento a Milano.
Tradurre e scrivere: quanto dista l’attività di un traduttore da quella dello scrittore? Cosa ti ha portato a passare da un ruolo all’altro?
Mentre elaboravo La fabbrica del panico traducevo per i Classici Feltrinelli Germinale di Émile Zola, testo fondativo della narrativa civile, romanzo in cui l’asciuttezza del contenuto nasce dalla profonda conoscenza del tema trattato, dalla precisione nell’utilizzo dei termini, dalla ricerca. In questo senso la traduzione ha senza dubbio influito sulla forma del mio romanzo. E tuttavia tradurre è un mestiere, una forma di artigianato, con regole ferree, nel quale è necessario evitare protagonismi. Non è così nel caso dell’elaborazione di un racconto o di un romanzo.
Qual è attualmente lo spazio in Italia per una letteratura del sociale?
Enorme. La narrativa d’inchiesta, il romanzo civile, il reportage narrativo, sono le forme che ha assunto la più interessante narrativa italiana. Forme che conferiscono nuovo valore al romanzo e al racconto storico. Un racconto che tenta di colmare il vuoto lasciato dall’informazione giornalistica e dalla narrativa generalista uniformate al mercato.La narrazione sociale ha lo scopo di raccontare le storie che non hanno voce, le storie che hanno un valore esemplificativo, quelle che possono determinare, in qualche modo, un cambiamento.In una recensione su Il manifesto del libro Il costo della vita di Angelo Ferracuti, Massimo Raffaeli dice “esiste ora una querelle sul realismo (sul suo ritorno effettivo o presunto, sulla sua ammissibilità ovvero sul suo anacronismo) che tende a ripiegare di continuo su se stessa e a ignorare pertanto, al di là delle categorie astratte o nominalistiche, un’esperienza che qualunque lettore conosce se non altro per intuizione e cioè lo statuto di necessità che presiede o meno una determinata opera.”Credo, come Raffaeli, in uno statuto di necessità che restituisca la distanza emozionale delle cose vissute, viste o sentite, Ben venga, in questo senso, una narrativa necessaria che torni a mettere al centro del racconto il mondo reale.
Possiamo avere delle anticipazioni su quale sarà il tema del tuo prossimo lavoro?
È ancora presto per entrare nel dettaglio, posso dire che ho iniziato a scrivere, che il romanzo sarà ancora una volta ambientato nella ‘mia’ Valtellina e che ancora una volta sarà narrazione civile.
Intervista del 19/10/2014
Pubblicato per gentile concessione dal sito CSI-Multimedia di Cristina, Alfredo e Camilla