Co digo, digo!
Co digo, digo!

Co digo, digo!

Co digo, digo! di Carlotta Berti, editoriale Programma

Co digo, digo!

Si tratta di un agile libretto pensato per i foresti che vogliano orientarsi nella giungla del dialetto e delle tradizioni veneziane. Pensato soprattutto per le giovani generazioni, quelle che si muovono tra uno spritz a Rialto e uno a Santa Margherita e che fruiscono contenuti su Internet all’insegna della superficialità, senza verificare l’attendibilità delle fonti.

Si inizia con le banalità sulle origini di “ciao” per proseguire con una serie di espressioni più o meno tipiche raggruppate per tema: dai saluti alla toponomastica, alle feste, al cibo.

Il dialetto questo sconosciuto

Il primo appunto riguarda la traslitterazione. Esistono delle consolidate regole che guidano il passaggio dalla parola pronunciata a quella scritta. Si veda a proposito la Grammatica veneta di Silvano Belloni o testi di Zolli, Cortellazzo o ancora il classico dizionario Boerio.

Scrivere mexo anziché mèzo (mezzo) o xo per (giù) o diexe per diese (dieci) è un vero obbrobrio. Se diexe potrebbe passare per grafia arcaica pre-goldoniana, xo è palesemente errato.

Anche la elle ha una sua grafia standard: si può decidere di ometterla (ciàcoe per chiacchiere, ibro per libro), di scriverla e non pronunciarla (cavalo per cavallo, tola per tavola) di indicarla con una e ( per là, eori per loro), deve però essere univoca. Che ora venga indicata in un modo, ora in un altro o addirittura sostituita da un apostrofo è altamente sbagliato e fuorviante (cae per calle, ‘e per le, solàna per scottatura, bàea per ubriacatura, coeombi per colombi, eagnarse per lagnarsi…).

Ci sono poi svariati errori banali come suppiar per supiàr (soffiare) o sguarattar per sguaratar (sciaguattare).

Anche sulle etimologie nutro qualche dubbio. Ad esempio caligo, in uso in gran parte del Nord Italia, deriva semplicemente dal latino caligo, senza scomodare fantasiose ca me ligo.

Confondere infine petola con piàtola è grossa…

Quanto alle abbreviazioni dire San Zacca per San Zaccaria o via G per via Garibadi forse si usa tra i giovani del Lido, poco avvezzi agli spostamenti in centro storico, ma tra i giovani veneziani non mi risulta sia di uso comune.

Non tutte le espressioni indicate hanno una valenza generale. Ad esempio il verbo usmàr in senso di infastidire non è di sicuro attestato. In veneziano, come in italiano, significa infatti fiutare e per estensione sospettare.

L’impressione è che il gergo di una ristretta cerchia di persone sia forzatamente esteso a un contesto giovanile generalizzato.

Anche sulle tradizioni delle feste ci sarebbe molto da dire. L’usanza di infestare Sant’Elena e oscurarne le rive è recente, da quando la festa da tradizione locale è diventata happening turistico. La desolazione che resta dopo ore di bagordi, ubriacature e bisogni corporei espletati ovunque da migliaia di persone è incommentabile. E non ha nulla della festa popolare che i veneziani tutti tanto amavano.

Via Garibaldi di sicuro ringrazia di essere definita:

“la vera, autentica Venezia, a tratti grezza, l’unica zona residenziale viva in cui pullulano i veneziani veraci, che personalmente amo.”

Non si può che esprimere gratitudine all’autrice per la sua calorosa espressione di simpatia per il volgo.

Il Web come fonte del sapere

Sfruttare poi Wikipedia come autorevole fonte dell’etimologia, ad esempio del termine bacaro, non mi sembra una grande impresa. Come dire: a googolare sono capaci tutti, a dare informazioni corrette e attendibili pochi.

In conclusione il libro è un concentrato di banalità e informazioni non sempre corrette. È inutile per i veneziani che cercano curiosità interessanti e magari poco note e inutile per i foresti per le frequenti fuorvianti inesattezze.

Nell’epoca del Web non si sentiva la mancanza di un lavoro che non offre nulla di più di quel che si può trovare navigando a vista in Rete.