Elegia americana di J. D. Vance, Garzanti editore
J.D. nasce nel 1984 a Middletown in Ohio. I nonni sono emigrati lì giovanissimi da Jackson nel Kentucky per fuggire dalla miseria. Il racconto di Vance fotografa un’America altra, distante anni luce da quella delle grandi città. È l’America della Rust Belt, zona compresa tra gli Appalachi settentrionali e i grandi laghi. Qui vivono quelli che sono chiamati con disprezzo hillbilly, rozzi montanari. Si tratta del sottoproletariato e proletariato bianco americano, un tempo classe operaia ora impoverito dalla perdurante crisi dell’industria pesante.
J.D. narra della sua infanzia e della sua famiglia emblema di un’intera classe sociale. La madre tossicodipendente incapace di mantenere un lavoro e una relazione stabili, il padre che lo abbandona e si rifà un’altra famiglia, i nonni ancora di salvezza nel loro sostituirsi ai genitori.
La nonna Bonnie è il punto di riferimento per J.D. è lei che gli trasmette il valore del lavoro, dello studio del non arrendersi e del difendere a tutti i costi la famiglia, se serve anche con il fucile. J.D. è fiero dell’appellativo hillbilly perché rappresenta le sue origini, la sua famiglia, la sua gente. Gente che spesso vive di sussidi, preda di dipendenze da alcol o droghe, che non tenta neppure di elevarsi socialmente. Cosa che invece fa J.D.. Finite le superiori si arruola nei Marines, poi si iscriva all’Università dell’Ohio e al termine addirittura approda a Yale dove si laurea in legge. Da lì la sua carriera prende il volo tra politica e uffici legali di altissimo livello.
Diverse chiavi di lettura
Le chiavi di lettura del libro possono essere diverse. La prima, la più ovvia, è quella classica: grazie al lavoro e all’impegno anche un giovane di umili origini può realizzare il famoso sogno americano di diventare qualcuno. J.D., come prima di lui Bill Clinton, sono la dimostrazione che chiunque può arrivare ai vertici del potere e della società grazie alle possibilità offerte dallo zio Sam e all’intraprendenza personale. Fin qui la favola.
Poi c’è la realtà, quella di milioni di persone che vivono in uno stato di indigenza totale, che fanno letteralmente la fame, vittime della mancanza di lavoro, dell’assenza dello Stato, di dipendenze di ogni tipo. Nell’America rurale domina la violenza, la giustizia fai da te, la pistola facile. Le famiglie sono disgregate, i ragazzi sono allo sbando e perpetuano gli errori dei loro padri. Senza una figura chiave nella loro vita i ragazzi ripetono i comportamenti familiari assimilati da generazioni e restano nella loro condizione. Pochi vanno all’Università e quasi nessuno in quelle di alto livello.
L’ascensore sociale è completamente bloccato e l’America è brutalmente spaccata in due. Da un lato c’è quella tutta lustrini delle metropoli, quella celebrata dai film di Hollywood, quella sognata da molti giovani di oltre oceano. Dall’altro c’è quella degli hillbilly che vivono alla giornata che non hanno nulla da sognare o sperare, che spesso non hanno un lavoro, che non possono contare su una famiglia stabile, che fanno figli da giovanissimi e smettono di studiare, che annegano le loro paure nell’alcol o negli oppioidi.
Fine di un mito
E così ecco una seconda chiave di lettura che rende il libro di sicuro interesse socio antropologico perché dà vita all’America dei poveri e, involontariamente, abbatte il mito delle pari possibilità per tutti. Non è vero che tutti sono eguali, non è vero che tutti hanno le stesse opportunità. Se sei nato povero la strada per costruirti una posizione è tutta in salita.
La terza chiave è quella del paradosso elettorale: chi vota questa classe proletaria? Vota Trump, non i democratici. E questa scelta è la stessa che vediamo in Italia e in Europa. Le classi sociali più in difficoltà non votano la cosiddetta sinistra, ormai incapace di rappresentarne le istanze, e quindi si ripiegano su una destra che pur non rappresentando i loro interessi in qualche modo li convince.
Temi come quello dei migranti che portano via il lavoro, della violenza sulle strade, della delocalizzazione che ha fatto chiudere le fabbriche, dei valori della famiglia tradizionale fanno breccia nelle menti di una fetta di società che si sente abbandonata dallo Stato e dai tradizionali partiti di sinistra. Perché è un dato di fatto registrato da molti osservatori, tra cui Massimo Cacciari, che la sinistra ovunque parla un linguaggio incomprensibile per le masse, ha abdicato al suo ruolo di difesa dei diritti dei lavoratori e delle classi più deboli. Per diventare forza di governo accettabile ha smesso di essere sinistra annacquandosi in un grande centro ormai non più distinguibile dalla destra.
Non si può negare che alla fine destra e sinistra attuino le stesse politiche di governo. Restano piccole e spesso insignificanti differenze a livello di linguaggio. Ma sono solo differenze formali perché poi all’atto pratico le azioni reali non cambiano. E che questa sia la triste realtà è dimostrato dall’affluenza sempre più bassa alle urne. Se ormai più del 50% delle popolazioni delle grandi democrazie occidentali non si sente più rappresentata e non va a votare forse sarebbe il momento di aprire una seria discussione sulla profonda crisi della democrazia occidentale e della rappresentatività. E sulla fine di una grande illusione…