Un dettaglio minore di Adania Shibli, La Nave di Teseo editore
Nell’estate del 1949 nel deserto del Negev, un gruppo di militari israeliani presidia un avamposto. Per giorni non succede nulla e i pattugliamenti si susseguono monotoni come la vita dei soldati e del loro comandante che trascorre il tempo a togliersi la sabbia dalla pelle, insaponandosi e sciacquandosi con una frequenza maniacale. Poi finalmente avvistano uno sparuto gruppo di beduini con i loro dromedari. È l’occasione giusta per provare la loro forza: uccidono tutti gli uomini e fanno prigioniera una giovane. Per loro è una sorta di animale di cui non capiscono la lingua, gli usi, il modo di vestire. Tornati al campo base la spogliano, la umiliano e la violentano a turno. Infine la riportano nel deserto e la uccidono.
Molti anni dopo una donna palestinese legge un reportage che racconta il triste episodio. Quel che la sorprende, oltre l’efferatezza del crimine, è che l’omicidio sia avvenuto esattamente 25 anni prima della sua nascita. Decide allora di volerne sapere di più, di conoscere chi era e dove viveva quella ragazza sfortunata, vuole darle un nome e una storia. SI mette così in viaggio, cosa non facile per una palestinese che voglia uscire dai confini degli insediamenti, alla ricerca di un luogo, alla ricerca di un passato che è dentro il suo presente. E nel cercare le risposte si compirà il suo destino.
Indipendenza vs catastrofe
Per qualcuno il 1948 è un anno da celebrare come Guerra d’Indipendenza, per altri è la Nakba, la catastrofe che è costata la morte a molti e la deportazione a centinaia di migliaia di persone, strappate alle loro case e rinchiuse in fatiscenti campi profughi. Dopo settant’anni la situazione non è cambiata, o forse è ancora peggiorata. I territori per i palestinesi si sono ulteriormente ridotti come la loro libertà di movimento. Il colore delle loro carte di identità determina il raggio dei loro possibili spostamenti. I frequenti posti di blocco ne aumentano i disagi con i loro carichi di umiliazione e di vessazione.
Se Ogni mattina a Jenin di Susan Abulahawa lasciava spazio a una speranza, a una possibilità remota di arrivare a una convivenza pacifica, in questo della Shibli sembra non esserci alcuna via di scampo e che il destino dei palestinesi sia segnato. La sorte delle due donne protagoniste chiude infatti il cerchio della speranza e dell’umanità.
Anche lo stile è profondamente diverso, in quello di Abulhawa c’è il racconto di un eden perduto e il rimpianto per una terra ricca e per un tempo di festa che si stagliano nel ricordo contro un presente di sofferenza. Il tono è spesso liricheggiante e sottolinea il trasporto dell’autrice. Lo stile della Shibli è secco, spoglio. Il racconto è una fredda cronaca che si perde in dettagli minori, appunto, quale i lavaggi del comandante, la disinfezione della ferita dovuta al morso del ragno, i pattugliamenti sempre eguali. Leggiamo azioni che si ripetono e si perdono nella noia quotidiana senza comunicare emozioni. Ed è proprio l’insistenza al dettaglio minore a rendere il libro inquietante con il suo carico di non detto che emerge tra le righe, con il suo raccontare eventi terribili inchiodati nella routine quotidiana.
Chi ha paura di un libro?
Il fatto che l’autrice sia stata cancellata dalla Buchmesse di Francoforte la dice lunga sul cammino che c’è ancora da fare, ovunque, per raggiungere pienamente la libertà di opinione.
Anche se alla fine, si sa, i libri proibiti sono spesso quelli più letti…